I monumenti farnesiani di Francesco Mochi
di Eugenio Gazzola, Piacenza, Fondazione di Piacenza e Vigevano, 2013
Sono lì a guardarci da secoli, Ranuccio ed Alessandro. Vegliano la bella piazza con la loro imponente mole. E ci raccontano di una Piacenza vecchia e nuova, sempre attaccata alle sue tradizioni e alla sua anima. Il volume raccoglie testi ed immagini in grado di farci conoscere, attraverso un taglio divulgativo, i nostri due maggiori monumenti: i nos cavaj li chiamò il poeta Ferdinando Cogni, i cavalli farnesiani di Francesco Mochi, «due capolavori dell’arte italiana di tutti i tempi, ma così compresi nell’orizzonte delle nostre abitudini che ci pare abbiamo dimorato lì da sempre, come se la piazza fosse nata con loro» (Francesco Scaravaggi, p. 7).
La prima parte riproduce integralmente il libro di Gaetano Pantaleoni, Il Barocco del Mochi nei cavalli farnesiani, edito nel 1975 e ristampato nel 1981, ancora oggi utile come atlante storico e mappa visiva dei due gruppi monumentali, mentre la seconda parte raccoglie i saggi che guardano alla funzione scenografica delle statue e al ruolo culturale da queste sostenuto nel tempo.
La terza infine concerne la conservazione e recupera gli interventi redatti in occasione dei restauri eseguiti negli anni Ottanta.
A suggello del volume c’è il poemetto celebre che Ferdinando Cogni dedicò ai cavalli nel dopoguerra. Ma con che occhio li guardiamo oggi i nostri cavalli?
Il curatore del volume osserva: «ancora oggi, quando si è nei pressi di Alessandro Farnese, si è indotti a rivolgere gli occhi al suo cavallo per imbatterci, fosse mai una novità, in quella testa lunga come una caricatura, col ciuffo di criniera che va sull’occhio, che finisce nelle forge sbuffanti di una bestia irata, infastidita, che scarta di lato per evitarti….
A guardar bene, la gran qualità dei cavalli di bronzo del Mochi è tuta in quello slancio trattenuto a forza.. se poi si attraversa la piazza e si passa sotto a Ranuccio, secondo dei nostri duchi ma primo a essere effigiato dall’artista, ecco la medesima emozione ma con maggiore comicità.
Ranuccio sta in arcione con fierezza, sì, ma senza istinto; la regalità nasconde la naturale indolenza che i cronisti gli attribuirono: no era un soldato ma un politico.
Però il suo cavallo, sebbene meno impetuoso dell’altro è pur sempre figlio di quel medesimo fremito, e come quello è stravolto da chissà quale paura antica quanto il mondo».